Le prime contemporanee teorizzazioni d’arteterapia risalgono agli anni ’40 e ’50 dello scorso secolo e giungono a definizioni quali “arte come terapia”, proposta da Edith Kramer, o “psicoterapia attraverso l’arte”, di Margaret Naumburg.
L’arteterapia incontra la medicina occidentale già nel corso dell’Ottocento, dove psichiatri innovatori, fra i quali il francese Philippe Pinel, aprono le porte degli ospedali psichiatrici all’arte, proponendo musicoterapia e una libera espressione delle proprie immagini mentali, in atelier sempre più stabili e ricchi di possibilità comunicative (pittura, scultura, musica, danza e recitazione).
È in questo contesto che nasce il fortunato binomio “arte e follia”, che tanto ispirerà la letteratura dell’arte psicopatologica, nel tentativo di trovare delle corrispondenze fra segni e figure della libera creatività del paziente e i sintomi del disagio mentale.
Questo approccio “sintomatico” all’arteterapia è stato ampiamente superato grazie alla teorizzazione di brillanti psichiatri, quali il tedesco Hans Prinzhorn, che rivoluzionò i sistemi di lettura dell’opera artistica, proponendola non in termini diagnostici ma piuttosto come libera e unica espressione del mondo interiore. Il paziente psichiatrico non è quindi più oggetto di analisi, attraverso l’arte, ma è incontrato profondamente come persona e artista, attraverso la sua opera.
Arte e follia. Arteterapia e psichiatria, fra Ottocento e Novecento.
L’opera di Adolf Wölfli (1864 – 1930), artista e paziente psichiatrico svizzero.