Intervista a cura di Fabiano Giovagnoni.
Conosciamo meglio Fabio Bonetta, Direttore Generale dell’ASP ITIS di Trieste che, da sempre, è la casa di riposo per definizione dei triestini. Due secoli dopo la sua fondazione, tuttavia, tale definizione appare decisamente riduttiva. Oggi la struttura di via Pascoli è una residenza protetta per anziani non autosufficienti, con prestazioni di tipo alberghiero e di socializzazione-animazione. Ma anche punto di partenza per fornire servizi sociosanitari a domicilio ed attività sperimentali come il “condominio solidale”. Vi sono ospitate gallerie d’arte, sale di lettura, un’emeroteca, un teatro auditorium e spazi per l’interazione tra utenti e rappresentanti delle ultimissime generazioni, incoraggiati a fare conoscenza. Gli spazi per la gioventù comprendono inoltre il campo di calcio a sette, concesso in utilizzo ad una società sportiva del centro cittadino. Struttura all’avanguardia, dunque, in cui non mancano servizi di tipo sanitario e riabilitativo. L’ultima interessante iniziativa, in ordine di tempo, è stata la fondazione dell’ARCA (acronimo di “Arte contemporanea per la comunità attiva”) che si occupa appunto di arte ed organizza delle mostre – aperte a tutti – nei maestosi corridoi del palazzo. Ne parliamo con Bonetta, ideatore del progetto.
Prima di tutto, chi è Fabio Bonetta?
Fabio Bonetta è una persona normalissima, che per casi della vita si è ritrovata a fare il Direttore di enti che si occupano di servizi alla persona. In maniera assolutamente incredibile, nel 1988 ha incominciato a lavorare per le strutture sociali dell’Istituto Rittmeyer. Poi mi hanno chiamato qui all’ITIS e dal 2003 sono il Direttore. E sono varie altre cose. Sono una persona che ha sviluppato una sua vita – che penso non interessi a nessuno – e che dal punto di vista professionale ha avuto una grande fortuna, perché lavorare per i servizi alla persona è qualcosa di realmente soddisfacente in quanto ti permette di avere un contatto con la gente, ti permette di provare ad aiutare o trovare i percorsi per aiutare le persone. Ti permette anche di dare dignità a questo lavoro – che secondo me è un aspetto molto sottovalutato – ed in più ha la grande fortuna di ricevere un grazie rispetto al proprio lavoro. Cosa che non è usuale in altri tipi di lavori, magari molto più riconosciuti. Io penso che il mondo del cosiddetto welfare, dei servizi alla persona e dei servizi sociali sia un mondo che viene sottovalutato nella nostra società e nella nostra cultura, perché si ha la tendenza a demonizzare la sfortuna che può accadere, e questo coinvolge chi dirige la società ed ha la tendenza a pensare che questi siano problemi secondari. Invece, nella vita della gente i servizi alla persona hanno la capacità di essere realmente efficaci. Un conto è dare una pacca sulla spalla e due soldi – come è stato abituato il nostro Stato dal dopoguerra – ed un conto è riuscire a risolvere i problemi delle persone con un progetto di vita, qualcosa di più complesso che richiede professionalità, competenza e passione. Ecco, qui nei servizi sociali si riesce a mettere ancora passione. Una cosa di cui sono orgoglioso.
Cosa significa, per te, il progetto ARCA?
Il progetto ARCA è un complemento, nel senso che è difficile farlo capire ai più. I servizi sociali vengono visti come una sorta di atto meccanico, in cui una persona fragile o bisognosa di cure, di aiuto o di supporto deve ricevere da qualcun altro delle prestazioni che gli permettano di sopravvivere. Quindi un concetto quasi meccanicistico del vivere la fragilità. Noi riteniamo (perché non sono solo io a pensarla così, stiamo parlando di un gruppo omogeneo di operatori, di professionisti che attraverso dei percorsi di crescita è riuscito ad arrivare a questi pensieri) che la persona sia un qualcosa di completo, che vada tutelata in tutti i suoi aspetti costituenti, e che non deve avere nessun tipo di deficit ulteriore procurato dalla causalità fisica, psichica o pluripatologica. Non deve avere nessun altro limite rispetto alle persone cosiddette normali, e qui sta il significato del progetto ARCA. Questa struttura, che è sicuramente la più antica della regione a livello di servizi sociali perché ha duecento anni di storia, si è occupata di tutte le più piccole e grandi disgrazie della società. Dai poveri ai ragazzini abbandonati, fino alla comunità anziana con tutte le sue fragilità. Però era sempre intesa con quello che era un po’ lo stigma esemplificato con la terminologia post basagliana dell’istituzione totale. Cosa che io ho riconosciuto quando sono arrivato qui, ed ho lavorato per modificarla. Qualcuno voleva abbatterla, nel senso di dichiarare tout court la sua inutilità. Invece io ritengo che è facile abbattere le cose. Il difficile è ricostruirle, aver coraggio di mettersi in autocritica e sviluppare un percorso. Noi abbiamo fatto questo, ed a completamento di questo processo che riguarda i servizi alla persona abbiamo inteso introdurre due termini, che normalmente nei servizi sociali sono assolutamente dimenticati: la bellezza e la dignità. Riteniamo che l’arte sia uno strumento, un veicolo di trasmissione incredibile perché si rivolge a chiunque. Ognuno può elaborare il proprio percorso e riteniamo anche che chi fa arte, chi si occupa di arte, abbia la capacità di trasferire queste sensibilità, che permettono alle persone di mantenere un’omogeneità rispetto ai cosiddetti “altri”. Abbiamo introdotto diversi percorsi, in questo processo che è iniziato circa dieci anni fa. Poi abbiamo avuto la fortuna di incontrarci con altre persone che la pensano nella stessa maniera, e abbiamo costruito questa relazione che via via si è cementata, e che ha portato alla creazione di questo progetto.
Hai avuto dei modelli di riferimento?
Assolutamente no. Nel senso che l’idea nasce da una chiacchierata davanti ad un bicchiere di prosecco con il mio amico Serse Roma, che è un artista triestino e che fa arte contemporanea a livello pittorico. Parlavamo, parlavamo, parlavamo e dicevamo: che cosa si potrebbe fare? E da quel dialogo emerse l’idea di portare l’arte contemporanea qui dentro, utilizzando varie possibilità. Una gli spazi. Abbiamo degli spazi che sono stati giudicati, da chi ha competenze concrete, come veramente splendidi sia a livello architettonico, che di spazi espositivi e di prospettiva. E poi per la volontà di dare una sorta di ulteriore sviluppo a quella che è un po’ la caratteristica di questo ente. All’interno della struttura abbiamo ricevuto, nel corso di duecento anni di storia, tante eredità da parte delle famiglie borghesi triestine, ed all’interno di questi lasciti c’erano molte opere d’arte. Infatti abbiamo una collezione abbastanza significativa, soprattutto per la tipologia di ente. Nel corso di questi anni abbiamo fatto anche una raccolta descrittiva, che è stata curata dai tecnici della fondazione Cini di Venezia, e che ha dato ulteriori stimoli verso questi percorsi. Così abbiamo deciso di applicare l’arte contemporanea nella logica di sviluppo, proprio per dare un seguito ulteriormente significativo alla volontà di innovare una cultura in qualche maniera ancora legata a stereotipi in cui io non mi riconosco più. Il progetto ARCA, che significa arte per la comunità, ha nel suo acronimo un significato oggettivo. Noi vorremmo portare l’arte contemporanea, che comunque ha una diffusione ancora limitata rispetto a certi ambiti sociali, a disposizione della gente comune. Perché all’interno di questa struttura vivono quattrocentocinquanta persone, ci lavorano quattrocentottanta e giornalmente ne entrano mille. E’ una comunità sicuramente legata da questo aspetto, appunto, del bisogno, ed anche dal punto di vista dei lavoratori ci sono situazioni che andrebbero ulteriormente approfondite. Però riuscire a dare, all’interno di una struttura di questo tipo, un percorso legato alla bellezza ed alla dignità attraverso l’arte ci è sembrato una cosa da fare. L’abbiamo fatta assieme a Serse ed altri amici come Riccardo Caldura – professore dell’Accademia d’arte di Venezia e persona di grande capacità e conoscenza – e via via aggregando tutta una serie di persone che hanno recepito questo progetto e che ne hanno fatto parte, con quelle mostre che stiamo promuovendo. Ed avremmo l’intenzione crescere, pian pianino perché pensiamo sia l’unica maniera possibile.
Cosa ti sta dando più soddisfazione?
Direi che ci sono due aspetti, uno personale e uno professionale legato alla funzione che ricopro. Parto da questo. Sicuramente introdurre percorsi legati all’arte all’interno di un ente pubblico che si occupa di sociale, con le dinamiche che ci sono all’interno di questa regione, di questa città, in questo comparto e nel comparto politico non è facile, perché l’innovazione che tutti propugnano a parole quando la si porta nei fatti concreti a tanti fa paura. A tanti fanno uscire espressioni che sono legate a pregiudizi, perché quelli che si considerano innovatori quando lo fanno gli altri dicono << Eh sì, chissà perché lo fanno… avranno interessi personali >>. Semplicemente invidia. Non c’è la capacità di considerare una proposta qualitativamente elevata un’arricchimento della nostra società. E poi… “Se lo faccio io è bellissimo, se lo fa un altro no”. Io invece penso che chiunque ha il diritto di proporre innovazione qualificata. Io come cittadino, come persona e come professionista sono felice che questo accada. Infatti tanti stanno copiando. Oggi per esempio l’ospedale, che ha delle risorse infinite rispetto all’ITIS, sta portando avanti il discorso dell’arte all’interno dell’ospedale. Potrei dire tante altre cose ma non voglio farlo. Il fattore professionale di inserire questi percorsi, che sono altamente dirompenti rispetto al cliché preordinato basato sulla consuetudine, ha fatto qualche ferita in giro, perché c’è gente a cui dà anche fastidio che vengano fatte queste cose qua. Però la positività delle proposte, la positività delle persone che sono i protagonisti ha permesso di liquefare queste resistenze, anche perché la cosa non grava sul bilancio e sulle rette pagate dai nostri utenti, in quanto tutta la partecipazione al progetto ARCA è volontaristica. Abbiamo il fattore importantissimo del rapporto con gli artisti che hanno sposato questo processo. Intendono anche aiutare lo sviluppo dei servizi sociali, ci donano delle opere che noi andremo ad utilizzare per finanziare progetti specifici. Per cui si tratta di quelle piccole cose che dovrebbero essere motivo di orgoglio per una comunità. Ovviamente l’innovazione fa paura, però abbiamo già i riscontri positivi. La gente esprime la consapevolezza di vivere in un posto in cui viene rispettata, e la dignità della persona è un valore oggettivo e dichiarato. Personalmente devo dire che è bellissimo approcciarsi a mondi diversi, conoscere cose che magari avevi solo letto su un libro, una rivista o sul giornale. O visto in un museo. Entrambe le dinamiche reali del processo di creazione dell’opera e della diffusione della sua conoscenza, attraverso persone che abbiano la competenza reale è fantastico. Apre un mondo, riesci a capire delle dinamiche, riesci a vedere i percorsi che portano alla creazione di un’opera d’arte. E questo è fantastico, ti da una dimensione che in qualche maniera mi consente di continuare a conoscere, di continuare ad essere curioso, di continuare a guardare il mondo non con i paraocchi ma a trecentosessanta gradi. Sempre attento perché bisogna stare molto attenti, però molto curioso. Poi ci sono i rapporti con le persone, che devo dire mi hanno gratificato in maniera eccezionale perché quelle che ho conosciuto e con cui collaboro sono delle persone fantastiche, e di questo sono assolutamente felice. Speriamo che questa vitalità possibile si espanda, diventi un discorso che magari il Comune di Trieste apprezzi come valore cittadino. Non è semplice. Abbiamo però già un dato oggettivo: la Illycaffè – una società che si occupa d’arte ad alti livelli – ci ha dichiarato la disponibilità a supportare questo progetto, che ha riscosso un certo tipo di interesse che non è comune, perché questa società non investe troppo in ambiti pubblicitari. Questo per dire che la cosa sta in piedi ma è sempre difficile applicare in patria queste innovazioni, perché c’è sempre – come dicevo prima – l’invidia. Quella sorta di aprioristica negatività che contraddistingue caratteristicamente Trieste. Prima di portare qualcosa a Trieste bisogna arrivare con quattro panzer. Però personalmente sono molto contento, vedo che la cosa sta pian pianino crescendo in ogni animo ed in ogni spirito.
Progetti per il futuro?
I progetti per il futuro sono di continuare. Noi adesso abbiamo fatto due mostre con gli artisti Luigi Carboni e Manuela Sedmach. Abbiamo intenzione, nel corso di aprile, di portare qui Massimo Kaufmann che è un artista milanese. Poi avremmo intenzione di applicare la seconda parte della nostra logica, perché il progetto ARCA gode della collaborazione dell’Accademia d’Arte di Venezia, di quella di Urbino e della Galleria Continua di San Gimignano. Il tutto grazie alle persone con cui ci rapportiamo. L’Accademia d’arte ovviamente è una struttura di Formazione d’alto livello, e noi vorremmo applicare un altro aspetto molto importante rispetto alla vita delle persone che frequentano l’ITIS: il dialogo intergenerazionale, il rapporto tra periodi della vita molto lontani oggi socialmente. Perché i giovani e gli anziani fanno fatica a dialogare. Pensiamo a chi proviene da altri Stati, da altre culture, costretto a venire qui da noi e non ha mai visto suo nonno, per dire. Per cui lavoriamo molto con i bambini, con gli studenti fino all’Università. Sarebbe nostra intenzione portare qui anche una mostra dei migliori prospetti delle Accademie, e dare loro la possibilità di esporre, di avere un contesto che li porti verso un’applicazione dei loro studi. E questo è un aspetto. L’altro aspetto sarebbe iniziare anche a lavorare, oltre che con l’arte figurativa, con la scultura. Potrebbe essere che riusciamo a portare qui qualche artista di rilievo internazionale, perché l’idea sarebbe proprio quella di coinvolgere artisti di livello assoluto, in una sorta di responsabilità sociale dell’arte. E’ un po’ la stessa cosa che cerchiamo di fare con il mondo delle imprese economiche. Cioè far capire che il potere della cultura, delle idee ovvero il potere dei soldi possono – con percorsi tutto sommato indolori e semplici, basati esclusivamente sulla volontà di fare – dare un riscontro oggettivo alle persone che hanno bisogno reale di essere aiutate. Senza stigmi o pregiudizi, ma proprio in un rapporto che riporti quel concetto quasi antico di filantropia, di rispetto, di coniugazione di mondi che in qualche maniera fanno fatica a riconoscersi. E devo dire che pian pianino – bisogna essere molto perseveranti ovviamente e proporre cose serie – vedo che le cose si stanno muovendo. Finché ci lasciano lavorare noi continuiamo, e questo è il dato. Poi vedremo, perché da cosa nasce cosa. Se penso a quando, solo qualche anno fa, immaginavo che qui dentro venissero ad esporre artisti di arte contemporanea… era una sorta di illusione! In effetti oggi è una gradita e piacevole consuetudine. Per cui le cose si possono fare, basta avere la voglia di portarle avanti.